È innato nell’uomo il desiderio di conseguire
la felicità e di eliminare dall’esistenza il dolore e la sofferenza. Ma cosa
impedisce alle persone d’essere felici? È frequente vedere gente che si lamenta
del tempo, del lavoro, della vita di coppia, delle relazioni. Per molte persone
la felicità è una questione d’orgoglio, un obiettivo ambizioso da perseguire
con grande impegno e a volte a prezzo di sacrifici. Sarò felice...
"quando
finalmente sarò ricco", "quando sarò famoso" o "quando avrò
una casa".
La felicità è una questione di responsabilità non come un peso che
non dà alcuna possibilità di scampo, ma che
dà la possibilità di dire " sono responsabile di come sto e se
qualcosa non funziona, ho la possibilità di cambiarla".
La causa
principale del dolore e della sofferenza risiede nell’ignoranza e nella
confusione mentale, perciò la felicità si può ottenere solo eliminando questi
due ostacoli attraverso la liberazione della mente. Conoscere se stessi,
controllare le emozioni distruttive, sconfiggere l'egoismo per aprirsi agli
altri attraverso l'esercizio quotidiano alla compassione sono, in sintesi gli
insegnamenti che il buddismo indica come gli ingredienti fondamentali per
un'esistenza più felice.
E come dice il Dalai Lama
“L'arte della felicità non attinge a credenze religiose o verità
assolute, ma è la conquista e l'esercizio di una pratica quotidiana, difficile ma
possibile: conoscere se stessi, capire le ragioni degli altri, aprirsi al
diverso e guardare le cose in modo nuovo. In una parola, riscoprire la qualità
umana per eccellenza: la compassione. Insegnandoci a trasformare le avversità
in occasioni per conquistare una stabile e profonda serenità interiore”.
Importante è "osservare" i contenuti della mente senza
lasciarsi trascinare dall'assorbimento autoidentificativo. La mente assorbe la
realtà e poi la ri-proietta modificata, inoltre essa ci trascina ad identificarci con tale realtà
"alterata" da molteplici condizionamenti. Purtroppo non sempre ne
siamo consapevoli, a volte creiamo una
divisione tra l’osservatore e l’osservato, tra il soggetto dell’esperienza e
l’esperienza stessa. L’essere umano ha creato dentro di sé "immagini"
di un proprio bisogno di sicurezza, in modo da rassicurarsi una identità e dei
punti di riferimento dove appoggiarsi. Invece si è ritrovato con immagine false
che lo hanno condizionato. Il bisogno, oltre ad essere di richiamo è il segno
di un disagio interiore, di una disarmonia, poiché se desideriamo la felicità e
perché siamo infelici.
Sfogliando le pagine di un
questionario fatto dai ragazzi di un liceo di Roma Paolo Crepet notò che non
compariva mai la parola felicità e, chiedendo spiegazioni, i ragazzi risposero
che trovavano quel termine “imbarazzante”.
Nella nostra cultura non è facile trovare la felicità e c’insegna a
vivere le gioie come qualcosa da temere. Per Freud “…il prezzo del progresso
della civiltà si è pagato con una crescente riduzione della felicità dovuta
all’intensificarsi del senso di colpa … l’uomo ha sempre incautamente barattato
la felicità con il senso di colpa”.
La felicità è
dunque una conquista personale, uno stato mentale, non dipendente dai fenomeni
esterni che, erroneamente e illusoriamente, siamo portati a credere d’esistenza
intrinseca.
Lo sviluppo spirituale è connesso con il nostro essere
felici ed è una capacità innata in tutti gli esseri umani, ma con l’avvento
dell’era industriale la crescita spirituale è notevolmente diminuita. Il senso
della realtà accettabile accoglie prevalentemente solo gli aspetti materiali,
tangibili, misurabili dell'esistenza e questo ha portato ad un mal-essere
diffuso. Il problema per l’uomo, secondo Fromm, sta nel fatto che
l’ordinamento sociale umano non è adeguato alle sue reali potenzialità e quindi
non favorisce la sua autenticità. Nel suo libro “Avere o essere” individua una
serie di legami dell’uomo occidentale nell’uso esasperato dell’immagine e nei
bisogni indotti; vincoli che impediscono appunto lo sviluppo del libero
arbitrio. Solo la presenza di
molte garanzie esterne protegge dall'angoscia e dalla depressione la persona di
carattere ricettivo, perché essa ha perduto il contatto con la propria capacità
interiore di produrre, di assumere iniziative, di formarsi delle convinzioni,
di esprimersi autonomamente, di prendere decisioni, di amare, di essere.
Nella sua autobiografia Carl Gustav Jung
afferma di aver rilevato, attraverso l'esame di migliaia di pazienti assistiti
nella sua lunga carriera di psicologo, che oltre il novanta per cento della
sofferenza psicologica è imputabile a carenze spirituali. Non è vero dunque che
i beni materiali, la ricchezza e il successo riempiano la vita; per essere
veramente e intimamente felice l'uomo ha bisogno di ben altro.
L’educazione
interiore non è soltanto un percorso spirituale, ma un programma che gli esseri
umani hanno sempre intrapreso e
perseguito al fine di sviluppare le potenzialità del pensiero introspettivo,
per poi ampliare la razionalità, giungendo ad un contatto più stretto e sentito
con il proprio sé e creare, plasmare
un io più emancipato, maggiormente
predisposto alle interrelazioni, sviluppando rapporti profondi e proficui con
le persone. Ogni individuo che intraprende il percorso di conoscenza del
proprio sé giunge a recuperare una maggiore attenzione verso un modo di essere
più spazioso. Sempre più persone sono alla ricerca di
risposte creative ai loro problemi e soprattutto di nuovi valori che diano un
senso alla loro esistenza. Cresce l'esigenza di superare i vecchi schemi, i
condizionamenti e di sentirsi liberi di seguire la propria strada. Questo è
possibile facendo pratica con il nostro mondo interiore, conoscendolo a fondo e
facendo germogliare i nostri talenti nascosti.
Oggi, si sta
sviluppando un certo interesse per i rapporti tra psicologia e Buddhismo, un’attenzione
determinata dai limiti emersi all’efficacia che la sola psicoterapia, possa
bastare a risolvere i problemi, concentrandosi solo sulla ristrutturazione
dell'io. La psicoterapia più tradizionale, infatti, non sempre sa cogliere gli
aspetti più radicali della domanda d'aiuto da parte del paziente. Mentre in una
pratica spirituale, in particolare se basata su tecniche meditative
"forti", vengono vissuti conflitti psicologici, di cui si dovrebbe
invece occupare la psicoterapia. Spesso l’interesse per la pratica spirituale è
un alibi per nascondere o sopportare conflitti psicologici non risolti. Molte persone
portano nella propria vita spirituale conflitti che non possono venire in essa
risolti.
L'essere umano è
qualcosa in più di quel mal-essere avvertito o identificato: il tutto è più
della somma delle parti.
La sofferenza esiste e non è
possibile evitarla né allontanandosi fisicamente, né coltivando illusioni.
“L’evidenza del dolore, del suo radicamento
in ogni evento della vita umana, dalla nascita alla morte, può essere compresa
da chiunque sia disposto ad accettare la propria esperienza esistenziale per
quella che è, senza frapporvi la lente deformante dell’illusione
autoconsolatoria”.
(Mark Epstein).
Sia nel
Buddhismo che nella la psicoterapia l'unica via d'uscita consiste in un lavoro
approfondito
sulla mente, ma
mentre la psicoterapia indaga sulle forme di sofferenza psicotica e borderline,
il Buddhismo si occupa della sofferenza del cambiamento e della sofferenza
onnipervasiva, su cui la psicologia non ha molto da dire. Il Buddhismo si
occupa di
tre tipi di sofferenza:
1) Dukka - la comune sofferenza, che deriva
dalla nascita, la malattia, l'invecchiamento, la morte e che si
scontrano con le nostre fantasie illusorie di immortalità. Non ottenere ciò che
si desidera, convivere con ciò che non si desidera ed essere separati da ciò
che si ha caro crea insoddisfazione e il non riuscire a realizzare tutti
i desideri.
2)
Viparinama-duhkha, la sofferenza come
effetto del cambiamento, cioè la sofferenza che nasce quando un fenomeno
piacevole con il tempo tende a divenire spiacevole, come ad esempio quando il
piacere prolungato si trasforma in dolore o la persona a noi più cara diviene
il nostro peggiore nemico.
3)
Samskara-duhkha, la sofferenza che
pervade ogni fenomeno e che è connessa al nostro dipendere dai cinque aggregati
psicofisici: la materia, la sensazione, la percezione, i fattori mentali e la
coscienza.
La rinascita
spirituale mette in movimento l'individuo verso un modo più vasto di essere, in
grado di procurare una salute emotiva migliore, una maggior libertà delle
scelte personali, il senso di un legame più profondo con gli altri, con la
natura e con il cosmo. Il termine che è usato per indicare l'esperienza diretta
delle realtà spirituali è "transpersonale" che, se pur appare di
recente, si rifà alle antiche tradizioni spirituali (il Buddhismo, il Sufismo,
l'Induismo, il Taoismo e altre ancora). Questa
esperienza la possiamo comprendere partendo dalle prove che la nostra vita ci
offre. Sono presenti molti casi di situazioni limiti, come per es. un incidente
stradale, la perdita di coscienza, ma
anche il parto o uno sforzo intenso e tutte quelle esperienze di quasi-morte.
Esperienze che di solito sono insopportabili e dolorose, ma anche possono far
immergere la persona nel suo inconscio. Altri esempi sono i sogni, una
ricchezza d’immagini, sensazioni corporee e di emozioni, le sedute d’ipnosi e varie
pratiche spirituali.
Con i nostri sensi ordinari
possiamo sperimentare solo ciò che avviene qui e ora, nel luogo e nell'istante
in cui ci troviamo. Negli stati mentali transpersonali, sperimentiamo noi
stessi come un campo di coscienza, un luogo di scambio di energie, che non sono
prigioniere di un contenitore fisico. Possiamo sentirci tutt'uno con altre
persone, gruppi d’individui, perfino con l'intera umanità.
Il termine transpersonale
sembra essere stato utilizzato per la prima volta da Roberto Assagioli, il
creatore della psicosintesi ed in seguito da Gustav Jung. Questo
orientamento cominciò ad affermarsi nel campo della psicologia intorno agli
anni sessanta, a partire dall'opera di A. Maslow, il quale per primo mise
l'accento su una psicologia "evolutiva" che considerasse lo
"sviluppo delle potenzialità", "la soddisfazione graduale dei
bisogni" la relazione tra "persona e persona" nel rapporto
terapeutico, l'esperienza mistica, come momenti fondanti di un percorso
d’auto-realizzazione. Secondo l’autore, l’auto-realizzazione è lo scopo finale
di una persona. Essa però può richiamarvi l’attenzione solo dopo che i bisogni
fisiologici, di salvezza, d’appartenenza, di amore e di stima siano stati
soddisfatti. Le persone autorealizzate sono coloro che hanno soddisfatto i
“loro bisogni” ad ogni livello. Quando i bisogni fondamentali non sono stati
soddisfatti, permangono le frustrazioni alle esigenze positive di realizzazione
del sé; di conseguenza le persone avranno problemi di crescita o di sviluppo
personale.
Molte
potenzialità umane sono a nostra disposizione, ma ciascuno di noi nasce in una
particolare cultura la quale seleziona e sviluppa un piccolo numero di queste
potenzialità e ne respinge o ignora molte altre. Quando si lasciano affiorare e
li si sperimenta sino in fondo, integrandoli nella coscienza, essi perdono il
loro potere di influire su di noi in modo negativo. Questi stati
transpersonali possono innescare una trasformazione molto benefica su chi li
vive e sulla sua esistenza.
Possono inoltre ridurre le tendenze aggressive, migliorare
l'auto-immagine, accrescere la tolleranza verso gli altri, promuovere la
qualità generale della vita, favorire un profondo senso d’unione con gli altri
e con la natura.
“…
Esiste una vasta area, nell’ambito della trasformazione della personalità che
non riusciamo a cogliere e che possiamo attribuire alla misteriosa
creatività della vita … La disperazione ha dato luogo alla speranza, l’egoismo
è stato sostituito dalla dedizione, la vigliaccheria si è trasformata in
coraggio, il dolore è stato sconfitto dalla gioia, la solitudine è stata
dissipata dall’amore … Noi, nella nostra funzione di counselor , abbiamo dato
una guida, ma sono le forze creative della vita che operano il miracolo della
trasformazione”.
Con la saggezza
e il profondo calore umano, Rollo May spiega come il compito del counselor sia
quello di favorire lo sviluppo e l'utilizzazione delle potenzialità del
cliente attraverso un atteggiamento empatico che fa trasparire la capacità
di accogliere e rispettare l'altro.
“Il coraggio che ogni uomo deve possedere è
di essere se stessi e di confidare in se stessi nonostante la propria
limitatezza; significa agire, amare e pensare, pur sapendo di non possedere le
risposte definitive”.
Dobbiamo
imparare ad abbandonare il proprio sé all’altro, essere disposti a venire
trasformati… morire a se stessi per vivere con gli altri. È la perdita
temporanea della propria personalità per ritrovarla, infinitamente più ricca,
nell’altro. “Ciò che tu semini non riprende vita se prima non muore…”
Come si può procedere in un mondo dove tutto è così
accelerato, dove l’alibi “non ho più tempo” estranea sempre più l’essere umano
dalla sua vera natura riducendolo a macchina produttiva e accumulatrice? Quale è allora il primo passo per giungere a
questa consapevolezza? Come vivere pienamente e in modo sano una vita
spirituale?
Un modo è guardare avanti e scoprire, in mezzo al disordine,
anche l’armonia dei nuovi percorsi esistenziali e spirituali e la ricchezza
delle nuove culture e dei nuovi stili di vita. L’Educazione interiore è stato
il percorso più consone per iniziare l’evoluzione del mio essere. Attraverso
l’auto-esplorazione ho intrapreso il viaggio verso la conoscenza e recuperato
una maggiore attenzione per la dimensione affettiva di molte emoziona latenti e
maturato rapporti più autentici con le persone.
I passi sono stati graduali e spesso difficili, ma i margini
di riflessione che gradualmente mi sono donata mi hanno portato nella mia
storia, analizzando le vicende tra gioie e dolori, ripercorrendo successi o
insuccessi e tutte le singolarità del mio vivere quotidiano. Quello stare poi
con me stessa ha fatto il resto. Le prospettive che offre la meditazione sono
innumerevoli.
Non
mi è facile dare un significato di meditazione o a cosa porti perché è una
pratica nella quale gli effetti sono intimi e unici per ogni persona, solo
essere in meditazione si comprende che cosa essa sia. Meditare non è sempre
facile n’è piacevole: la posizione, la rinuncia
al fare, il doversi predisporre a stare lì quando si hanno piccoli e
numerosi impegni diventano spesso degli ostacoli. Poi senti che quel momento è
singolare, ha qualcosa che esula dalle teorie o dal seguire i consigli. Si
comincia dal sentire qualcosa che cambia per poi diventare, a lungo andare, una
forma di terapia dove tensioni, ansie o preoccupazioni perdono la loro forza.
Lo si avverte da ogni gesto che viene fatto, anche su quelli che prima
apparivano insignificanti come il camminare o l’osservare una foglia che cade
dal ramo. Il senso della meditazione scaturisce gradualmente, ma prima
è necessario un lavoro su di sé.
Meditare è raccogliere l’attenzione concentrandosi sul proprio sentire
interiore, ascoltando il battito del cuore o seguendo il respiro per arrivare
lentamente
alla condizione
naturale e sana del corpo e della mente. Attraverso una serie di esplorazioni
della propria dinamica fisica e mentale si è pienamente presenti, consapevoli
del qui ed ora. Meditare porta al raggiungimento di uno stato di calma
fisica e mentale che è l’accesso più diretto alla comprensione
dell’impermanenza in ogni aspetto della nostra esistenza. Ogni cosa, persona,
essere, fenomeno, situazione sono impermanenti, attivi, condizionati, ossia
soggetti a nascita e distruzione.
Se abbiamo qualcuno
o qualcosa che ci piace abbiamo paura di perderla, se ci manca qualcosa o
qualcuno ci preoccupiamo di cercarlo. Desideriamo che le cose
siano permanenti, ma ci scontriamo in modo
forte tra come è la realtà e
come
vorremmo che fosse. Per
essere felici pensiamo che debbano essere
soddisfatte certe condizioni, ma non possono mai esserlo perché
sono condizioni transitorie
questo è un modo difficile poi da sopportare. C’è un
continuo darsi da fare, un’incessante ricerca del momento successivo, un insaziabile
aggrapparsi alla vita, uno stato di agitata irrequietezza. Soffriamo per ogni
cambiamento, le cose belle vorremmo che durassero in eterno e quelle spiacevoli
evitarle a tutti i costi. È come il
giardino del vicino che è sempre più verde del nostro, ma appena diventa nostro
perde quel luccichio che aveva quando lo desideravamo. Ecco la meditazione è
comprendere il passaggio della transitorietà, ci consente di cedere
all’attaccamento e all’identificarci fortemente a quel io generato da un
concetto, mentre l’io è un processo, la persona è un processo…Si può osservare
la natura mutevole dei fenomeni ponendo l’attenzione sulle sensazioni fisiche
nel corpo e si arriva a comprendere che la realtà non è statica e che ogni cosa
cambia in continuazione.
Meditare
porta, pian piano, alla cessazione della sofferenza e delle tensioni interne. Se
non c’è più quel io nel quale ci
identifichiamo fortemente si rimuovono tutti i condizionamenti che quel io si
porta dietro, come il dover rispondere in maniera conflittuale
a certe sollecitazioni o a l’aver bisogno di
certe cose:
tutto emerge
per quello che è.
Allora meno ci
si identifica con lo strumento mente/corpo, meno si è coinvolti da esso e più
si ha il controllo dello stesso. Spezzare questo meccanismo è importante e ci
si può riuscire se si mette a fuoco un altro aspetto della questione, l'uomo
vive in ragione della soddisfazione dei "bisogni", il bisogno di
essere felice, di star bene, di esser contento, di esser sereno in opposizione
allo star male, alla sofferenza, qualunque essa sia.
Il lavoro
spirituale non sostituisce il lavoro
psicologico, ma anzi può integrarlo.
L'incontro tra
psicologia e Buddhismo può risultare particolarmente fecondo in quanto si può
dimostrare come non sia del tutto vero l'asserzione freudiana del principio di
piacere, secondo cui vi sarebbe un'automatica reazione di allontanamento da ciò
che è spiacevole e di avvicinamento a quanto è invece piacevole, poiché alcune
tecniche meditative, se basate sulla consapevolezza, lavorano efficacemente
proprio tra la sensazione piacevole o spiacevole e il desiderio o l'avversione
successivi.
Inoltre, con questa
pratica s’incrementa l’amorevole
gentilezza e l’attitudine a eseguire le nostre funzioni quotidiani con
maggiore comprensione, si comprende l’essenza della consapevolezza dell’essere.
È qualcosa che ci riempie di
energia ci fa star meglio nel presente, aiuta a capire quello che si è e
come si è in quel momento. Non ci isola dalla realtà, ma ci aiuta a vivere
meglio la nostra vita. È sorprendente come nel mondo si stanno diffondendo
sempre di più centri di meditazione e sempre più sono le persone che trovano
questa pratica molto più salutare di un farmaco calmante. Il mio augurio è che,
anche nelle scuole, possa diffondersi come disciplina quotidiana, non solo come
fonte per un risveglio interiore, ma per rendere molto più efficace lo studio
ed ogni aspetto della vita quotidiana,
momento per momento.